DISCUSSIONI Una lectio magistralis per aprire le celebrazioni
Dopo 150 anni di unità nazionale l'italiano ha vinto
Nel 1861 - ha chiarito Michele Cortelazzo - lo parlava il 10 per cento della popolazione, oggi il 90 per cento. Il rischio è la marginalizzazione europea


Non è stato l'italiano ad aver unito il Paese. Viceversa, il rafforzamento della società italiana ha unito la lingua. Nel 1861 l'italiano era parlato dal 10% degli abitanti; 150 anni dopo l'unità lo usa più del 90%. Le percentuali si sono ribaltate. Ma i motivi sono molteplici. Talvolta sorprendenti. E il futuro? Il rischio è che l'italiano diventi un dialetto dell'Europa. Nell'Unione Europea ormai le lingue "di lavoro" sono francese, inglese e tedesco. Le altre sono minoritarie, anche se l'italiano resta la quarta lingua più studiata al mondo. Perfino dai cinesi. Potenza dell'atmosfera culturale che avvolge il Paese e attira interesse. E potenza anche dell'opera, che in tutto il mondo parla italiano.

Michele Cortelazzo, italianista di spicco, preside della facoltà di Lettere dell'università di Padova, ha inaugurato il programma di iniziative vicentine per i 150 dell'Unità d'Italia con una lectio magistralis sugli aspetti linguistici di questi 150 anni. La serata, condotta da Stefano Ferrio, e svoltasi al Ridotto del teatro comunale, è vissuta anche su un concerto dell'orchestra di fiati (Wind Band) del "Pedrollo".

Si parla sempre più italiano, questo è certo. Cortelazzo ha ricordato un'indagine Istat: nel 1987 era il 14% chi non parlava italiano neanche con gli estranei. Questa percentuale è scesa al 9.8% nel 1995 e al 5.4% nel 2006. Attualmente il record è del Lazio: il 15% parla in dialetto con tutti, mentre il Veneto ha il record in Italia di chi conosce il dialetto, il 44%. Un punto più sotto è la Campania, con il 43%.

È vero, come sosteneva Tullio De Mauro negli anni Sessanta, che l'italiano è stato insegnato da scuola, stampa e televisione? Sì e no, ha risposto Cortelazzo. Prima di questi, ci sono altri fattori determinanti: l'emigrazione, l'urbanesimo interno e…il servizio militare. Si tratta di situazioni che favoriscono la mobilità, allargano gli orizzonti e rinsaldano il rapporto tra le persone. Ma sono situazioni nelle quali è necessario trovare una "lingua franca" per comunicare: i minatori in Svizzera, benché lavorassero nel Cantone tedesco, pur proveniendo da molte regioni, tra loro parlavano italiano. E oggi gli immigrati (nel Veneto si parlando cinquanta lingue) con noi indigeni parlano italiano o dialetto. Scuola e stampa sono arrivate dopo queste trasformazioni. E hanno svolto un ruolo importante ma, almeno per la stampa, limitato: ancora nel 2001 solo il 30% degli italiani aveva la licenza elementare, e un altro 30% il diploma delle medie.

Idee non sono mancate in questi 150 anni. Alessandro Manzoni, consulente del ministero, pensava di esportare in Italia il fiorentino come lingua degli italiani: sognava anche di distribuire gli insegnanti toscani in Italia e di elaborare un dizionario toscano-fiorentino. Contro queste idee si batté Isaia Ascoli, goriziano, il più grande linguista dell'Ottocento: fu lui a inventare le denominazioni delle Tre Venezie, Euganea, Tridentina e Giulia. Spiegò che il vero guaio dell'italiano era la poca densità del terreno culturale in cui attecchiva e, soprattutto "l'antichissimo cancro della retorica" che non si riusciva ad estirpare.

E questa battaglia è durata sino a pochissimi decenni fa. Nel frattempo, l'italiano non ha estirpato i dialetti. S'è guadagnato spazio (fino a 50 anni fa non era pensabile una dichiarazione d'amore in italiano…) ma non a scapito del dialetto. Oggi si può essere italiani e veneti, perché il problema è un altro. Gli orizzonti si allargano. I giovani conoscono coetanei di altri Paesi, frequentano l'Erasmus e imparano altre lingue. Quelle potenti, come l'inglese. Quello che è capitato 150 anni fa, quando si andava a fare il soldato e l'esercito vietava di parlare in dialetto (alpini a parte), può succedere oggi con l'italiano. Che non è la "lingua franca" per parlare tra i giovani, o tra i 23 idiomi dell'Unione Europea, dove le lingue forti sono solo tre.


Antonio Di Lorenzo

«Giornale di Vicenza», giovedì 16 dicembre 2010, p. 45