Cronache linguistiche
Elena Ferrante e la violenza inespressa del dialetto


Il 1° settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia, verrà proiettato in anteprima il filmato televisivo «L’amica geniale», prima parte della serie tratta dall’omonima quadrilogia di Elena Ferrante.

I lettori sanno benissimo che Elena Ferrante è uno pseudonimo, dietro al quale si nasconde il vero autore dei romanzi che, soprattutto nell’ultimo quinquennio, hanno avuto uno strepitoso successo mondiale. Quello che forse non sanno è che negli ultimi anni la statistica Arjuna Tuzzi e io abbiamo dedicato all’enigma della «paternità» delle opere di Elena Ferrante parte delle nostre ricerche: è appena uscito, nella versione cartacea della rivista «Digital Scholarship in the Humanities», della Oxford University Press, un nostro articolo sull’argomento. Inoltre, la Padova University Press ha appena pubblicato, con il titolo Drawing Elena Ferrante’s Profile, gli atti, disponibili in open access, di un seminario, nel quale studiosi di attribuzione d’autore di varia nazionalità (tra i quali Jacques Savoy dell’Università di Neuchâtel) hanno affrontato il problema, concludendo tutti che la scrittura di Elena Ferrante ha sorprendenti analogie con quella di Domenico Starnone.

Oggi vorrei occuparmi però di un altro aspetto della scrittura di Elena Ferrante. Nella scheda del film, alla voce «lingua» è indicato: «italiano, dialetto napoletano». Ma se cerchiamo espressioni dialettali o comunque regionali, nei romanzi di Elena Ferrante, ne troviamo pochissime: strunz, uommen’e mmerd, càntaro, mamozio. Eppure, come hanno notato due linguiste italiane di valore, Rita Librandi e Giovanna Alfonzetti (che hanno dedicato al tema un articolo ciascuna), il dialetto è molto presente nelle opere di Elena Ferrante, fin dal primo romanzo L’amore molesto e ha una precisa connotazione: il dialetto è caratterizzato molto negativamente, come segno di oscenità, ostilità, volgarità. Ma è sempre evocato, mai utilizzato nella scrittura: nel primo volume della saga dell’Amica geniale troviamo frasi come «con noi parlava solo un dialetto sferzante, pieno di male parole, che stroncava sul nascere ogni sentimento d'amore», «rispondevano solo con borbottii in dialetto e insulti a persone indeterminate», «mi disse con astio, in dialetto». Se poi l’autrice ritiene di riferire nel discorso diretto le parole pronunciate in dialetto, lo fa riportandole in italiano. Lo spazio del dialetto è, dunque, uno spazio essenziale, ma al tempo stesso vuoto. Come ci ha fatto sapere Elena Ferrante in un’intervista a «Robinson» di «Repubblica» nel luglio dell’anno scorso: «Nei miei libri ho scelto sempre di raccontare il ruolo del dialetto, non di mimarlo … perché in genere ogni imitazione letteraria dell’oralità dialettale … mi ha sempre infastidita, specie quando neutralizzava con l’ironia, con il comico, con il patetico, una lingua che sentivo violenta e che mi metteva ansia». Però, in un film non si può citare il dialetto senza usarlo, lasciando alla fantasia del lettore immaginare come certi contenuti siano espressi nel dialetto violento, aggressivo, volgare che viene definito, ma non riportato.

Lo sa bene Mario Martone, che ha trasposto in film l’«Amore molesto»: la fisionomia di Napoli, sfondo essenziale del romanzo, è dato dalle immagini, dai rumori e anche dalle batture in dialetto, riportate alla loro materialità solo allusa nel romanzo. Staremo a vedere come se l’è cavata Saverio Costanzo, regista della serie «L’amica geniale».

«Corriere del Ticino», martedì 28 agosto 2018, p. 26