Cronache linguistiche
L'abusato luogo comune degli universitari sgrammaticati


Da qualche mese si è rinnovato il lamento e la polemica sulla limitatezza delle competenze linguistiche degli studenti universitari. In febbraio è stato pubblicato un appello firmato da 600 professori universitari (pochi i linguisti), i quali sostengono che da molti anni alla fine del percorso scolastico «troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente»: come denuncia chi insegna all’università, gli studenti universitari mostrano fragilità linguistiche, che comprendono «errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». Alla base di tutto questo ci sarebbe la svalutazione, a scuola, del tema della correttezza ortografica e grammaticale.

Nei giorni scorsi «Repubblica» è tornata sull’argomento, estraendo alcuni errori eclatanti da un’indagine condotta, su mille studenti delle scuole medie e superiori, in occasione del Festival dell’italiano «Parole in cammino» (Siena, 7-9 aprile) e da un precedente censimento su quasi duecento studenti universitari cagliaritani. Peccato che agli strafalcioni di studenti medi e universitari si sia affiancato quello del giornale che, per ben due volte, ha stampato «fedigrafo» invece di «fedifrago».

Quando leggo questi lamenti scandalizzati, mi stupisco. Nel mio insegnamento di «Tecniche di scrittura» al corso di laurea in Comunicazione dell’Università di Padova faccio scrivere i 150 studenti, correggo i loro testi e conto sulle dita delle mani gli errori di ortografia. Pochi sono anche gli svarioni lessicali. Ma sono l’unico professore che si trova ad avere studenti bravi, o almeno decenti?

Poi ho letto le dichiarazioni di due professori universitari. La prima: «il vero è che quelli (i giovani) non sanno la grammatica; e che sgrammaticano nello scrivere». La seconda: «Salvo i giovanetti di mente sveglia, gli altri, sebbene non stupidi addirittura, arrivano al Ginnasio, passano al Liceo, entrano nell’Università, e finalmente anche nelle professioni, nei pubblici ufficj, nel Parlamento, che non sanno cansare gli errori più ovvj d’ortografia». Per i contenuti potrei far passare queste affermazioni come uscite dalla penna di due dei 600 firmatari dell’appello contro il declino dell’italiano a scuola. Ma verrei sbugiardato subito dalle caratteristiche linguistiche: a scrivere questi giudizi sono stati due professori della seconda metà dell’Ottocento: Francesco Fiorentino, deputato nell’XI e nella XII legislatura del Regno (le parole citate sono state pronunciate il primo dicembre 1873 alla Camera dei Deputati) e Francesco D’Ovidio (noto filologo, che ha detto queste parole nel «Discorso alle scuole elementari di Massalombarda » del 1871).

Il lamento del professore universitario circa le competenze degli studenti sembra essere, quindi, un topos, un luogo comune ripetuto ciclicamente, senza averne verificato la corrispondenza con i fatti. Il che non significa che l’italiano goda di ottima salute tra gli studenti universitari. Ma per capire, seriamente, se la situazione è davvero grave, o se invece ci fissiamo sugli aneddoti più esilaranti, occorrerebbe fare una seria indagine, su un numero ampio di studenti universitari, scelti in base a un accurato campionamento. Finora nessuno l’ha fatto. Così ognuno può far assurgere a verità la propria esperienza personale. Ma di questo si tratta, non di dati validi su cui fondare riflessioni e proposte di soluzione.

«Corriere del Ticino», venerdì 14 aprile 2017, p. 29