Cronache linguistiche
La lingua è uno strumento potente per interpretare la realtà


Il 4 marzo la presidente della Camera dei deputati italiana, Laura Boldrini ha inviato una lettera ai deputati. In questa lettera ha invitato tutti a usare formulazioni rispettose dell’identità di genere quando fanno riferimento specifico a donne che hanno una carica o svolgono una professione (per es. le deputate e le ministre). Personalmente plaudo all’iniziativa di Laura Boldrini. Certo, si tratta di una questione di forma, ma la forma linguistica è uno strumento potente per indirizzarci a interpretare la realtà. Da solo l’uso linguistico non migliora la condizione femminile; ma può essere il completamento coerente di una politica per l’affermazione della parità di genere.

Non tutti, e non tutte, condividono questo mio parere. La presidente della Camera è stata sommersa, soprattutto nei social network, di messaggi di appoggio, ma soprattutto di critica, spesso feroce, cattiva e talvolta anche stupida.

Alcune delle critiche più ricorrenti sono presenti anche nell’opinione di Luciana Boccardi, pubblicata nel «Gazzettino», il quotidiano di Venezia, del 9 marzo col titolo «Genere femminile. Meglio evitare cadute nel ridicolo».

In particolare l’autrice, come molti altri, ritiene che la presidente della Camera chieda la «traduzione al femminile di termini che il linguaggio in uso ha sempre considerato al maschile». Certo, i nomi di alcune professioni (particolarmente avvocato e ingegnere) e di alcune cariche (per es. sindaco, ministro, rettore) sono usati al maschile anche quando a svolgere la professione o a ricoprire la carica è una donna. Ma una delle regole fondamentali della lingua italiana è quella di variare il genere delle parole che si riferiscono a una persona: maestro e maestra, professore e professoressa, postino e postina, attore e attrice, il giornalista e la giornalista. Tutto questo lo consideriamo normale: non credo che l’autrice dell’articolo che sto commentando apprezzerebbe se la definissi “un valente giornalista di moda”, né credo che andrebbe mai in una scuola a chiedere del «maestro Veronica Rossi». E allora perché maestra sì e ministra no? Semplicemente perché le maestre esistono da secoli (almeno dal Cinquecento), le ministre solo da qualche decennio. Quindi sì, la lingua ha sempre considerato ministro maschile: ma i ministri erano maschi. Ora, la lingua si sta ancora adattando alla nuova realtà sociale, e chiama, che so, Maria Elena Boschi, a volte ministro, a volte ministra, a volte la ministro. Vedremo quale forma si imporrà. Ma non è una questione di grammatica: la grammatica, che ragiona in termini di sistema, sta dalla parte di ministra.

Un’altra critica ricorrente è l’invito ad essere coerenti e a dire, conseguentemente, giornalisto, farmacisto, dentisto. Affermare questo significa non badare a come si realizza in italiano il genere. La desinenza finale muta regolarmente (da –o ad –a) nei nomi della prima declinazione (quindi sì, la forma corretta è avvocata, anche se alle avvocate non piace). Ma non sempre il maschile e il femminile sono contraddistinti da queste desinenze. Le forme in –e sono ambigenere, e vengono disambiguate dall’accordo, per esempio dall’articolo. Lo stesso accade per i nomi in –ista. Ecco, affermare che chi dice avvocata dovrebbe dire anche dentisto può essere una boutade, un argomento ad effetto, ma non un argomento grammaticalmente fondato.

A meno che non si voglia, qui sì, cadere nel ridicolo.

«Corriere del Ticino», mercoledì 15 aprile 2015, p. 30