Cronache linguistiche
Ridare ai medici la capacità di parlare ai propri pazienti


Il 4 novembre scorso il quotidiano economico «Italia oggi» ha pubblicato, almeno nella sua versione onli¬ne, un servizio da Berlino intitolato «Cari medici, imparate a spiegarvi» (con il sottotitolo «Il problema è aggravato dai numerosi dottori stranieri»). Nello stesso giorno la sezione di notizie mediche del sito della BBC ha pubblicato un articolo sulla necessità di verificare le conoscenze dell’inglese non solo dei medici che si trasferiscono nel Regno Unito da Paesi extracomunitari, ma anche di quelli che provengono dagli altri Paesi dell’U¬nione Europea: non per purismo, ma per evitare che equivoci o malcomprensioni possano nuocere alla salute dei pazienti.

Giustamente Roberto Giardina, autore del servizio da Berlino, nota che il problema linguistico non riguarda solo i medici stranieri, ma anche i medici tedeschi, i quali, spesso, «parlano in maniera incomprensibile. O non spiegano affatto al paziente che cosa abbia, quale cura gli viene consigliata e perché. Con effetti spesso gravi. Devono imparare a parlare come tutti, non rifugiarsi nel gergo medico».

E riporta i dati di un’indagine condotta a Berlino secondo la quale il 20% dei pazienti non capisce quello che gli dicono il medico o l’infermiere. Il medico dovrebbe spiegare perché è necessaria un’operazione e quali sono i rischi connessi, ma il paziente finisce per firmare il modulo, quello che in Italia si chiama «consenso informato», anche senza comprenderlo. Il prestigio della figura del medico, la fiducia quasi fideistica nei suoi confronti, la vergogna di far intendere che non si capisce fanno sì che siano pochissimi i pazienti che chiedono spiegazioni. Ma la comprensione è fondamentale per la guarigione.

Nel fatidico 4 novembre ho ricevuto anche una mail che promuoveva un corso proprio su questo argomento («La parola che cura: storytelling e medicina narrativa»), con l’obiettivo di «approfondire il valore, la capacità di impatto e le diverse modalità di narrazione della malattia attraverso la costruzione di un patto narrativo tra pazienti, medici, aziende e decisori».

Insomma, sarà anche frutto del caso, ma nello stesso giorno si sono materializzate sul mio schermo tre fonti indipendenti che sollecitano i medici a curare le loro conoscenze linguistiche, la loro capacità comunicativa, l’attenzione alla competenza comunicativa. Proprio per questo all’università di Dresda viene tenuto un corso di tedesco per futuri dottori tedeschi; in quella di Colonia si è aperto un corso di tedesco per aspiranti medici provenienti da Paesi diversi dalla Germania (ma «a seguirlo dovrebbero essere anche i tedeschi di madrelingua»). Cosa si insegna nei corsi dell’Università di Dresda?

A «tradurre» in tedesco i termini scientifici, ma soprattutto ad acquisire consapevolezza che quello che un medico dà per scontato non lo è necessariamente per il paziente.

I problemi comunicativi dei medici tedeschi sono esattamente gli stessi dei medici italiani e, immagino, dei medici svizzeri. Ridare ai medici la capacità di parlare ai pazienti, e con i pazienti, e la sensibilità comunicativa per verificare se i messaggi che lanciano giungono correttamente al destinatario, è una necessità della formazione medica al giorno d’oggi.

Ultima coincidenza. Proprio quel giorno ho iniziato le lezioni di «Linguaggio medico» che da sei anni tengo al primo anno del corso di laurea di Medicina dell’Università di Padova.

«Corriere del Ticino», venerdì 21 novembre 2014, p. 36