In Francia il Ministro dell’Educazione Nazionale Gilles de Robien ha deciso di istituire nella scuola materna e nei primi anni delle elementari le "leçons de mots", cioè due lezioni settimanali di mezz’ora ciascuna, nelle quali gli scolari dovrebbero imparare delle parole a loro sconosciute, tratte da una lista pubblicata dal Ministero. L’obiettivo è di insegnare agli scolari 365 nuove parole all’anno, in media una al giorno. Questa riforma si basa su un’indagine di Alain Bentolila, linguista all’Università di Paris 5, studioso di lingue esotiche. Secondo un suo rapporto, già a sette anni i bambini francesi presentano livelli molto diversificati di competenze lessicali: se i migliori possiedono 8000 parole, i più deboli non superano le 3000. Poiché mediamente uno scolaro apprenderebbe 1000 parole all’anno, tra i migliori e i peggiori della stessa classe di età ci sarebbe, già nei primi anni delle elementari, uno scarto corrispondente a 5 anni di acquisizione lessicale. Va da sé che sono i bambini che provengono dagli ambienti socialmente più sfavoriti ad avere il lessico più povero.
Detta così (ma posso basarmi solo su resoconti giornalistici) sembra una chiara ripresa della teoria della «deprivazione verbale» proposta da Basil Bernstein nell’Inghilterra della fine degli anni Sessanta, una teoria che individuava fin dall’età scolare una bipartizione della popolazione, correlata alla stratificazione sociale, tra chi possedeva un «codice elaborato» e chi possedeva un «codice ristretto». Non ho dati per verificare se la presa di posizione di Bentolila sia giustificata in Francia e sia estendibile all’Italia. Comunque stiano le cose, è vero in ogni caso che compito della scuola è quello di combattere i deficit di competenza linguistica con cui i ragazzi socialmente svantaggiati giungono a scuola, cercando di farli arrivare ai migliori livelli possibili. Ma può essere efficace come metodo per colmare questa differenza quello di far imparare, sia pure un po’ alla volta, parole distaccate dal contesto, secondo una lista definita a priori dal Ministero, o non si dovrebbe piuttosto promuovere negli scolari il contatto con testi, orali e scritti, tematicamente attraenti, ma stilisticamente ricchi e aiutarli ad impadronirsi del significato delle parole incontrate che risultassero loro ignote?
Se Bentolila leggesse queste righe commenterebbe che si tratta di «una bestialità assoluta» (espressione che gli è stata attribuita, regolarmente virgolettata, dall’«Avvenire» del 28 novembre 2006, a proposito dell’idea, corrente nella scuola francese, e non solo, di «fare grammatica partendo dai testi»). Di fronte all’approccio testuale Bentolila pare reagire come un toro davanti a un drappo rosso. A proposito del lessico, sostiene che non è la lettura a permettere l’accrescimento del vocabolario, ma, al contrario, sono i preventivi domini della grammatica e del lessico a permettere di leggere i testi. Non riesco proprio a consentire con questa posizione. Sì, è vero, il bambino che conosce poche parole può scoraggiarsi a leggere testi di cui non riesce a comprendere il senso generale. Ma non sarebbe meglio, invece di dare agli insegnanti il compito di insegnare, per così dire a freddo, liste di parole, affidare loro quello di guidare gli allievi a comprendere il senso generale di testi via via più ricchi e a impadronirsi delle parole che ancora non conoscono, dopo averle incontrate nel loro contesto naturale? Del resto, non è così, a partire dal contatto con testi orali o scritti, che noi tutti abbiamo accresciuto e continuiamo a sviluppare il nostro bagaglio lessicale?
Nel 1873, Graziadio Isaia Ascoli individuava nella «scarsa densità della cultura» una delle cause della mancata diffusione della lingua italiana. Il concetto mi pare vero anche nel 2007: diffondiamo la cultura (quella anche lessicalmente ricca), facciamolo guidando opportunamente gli scolari, e le competenze grammaticali e lessicali miglioreranno. Il contrario mi sembra davvero difficile.
Michele A. Cortelazzo
«Corriere del Ticino», sabato 24 marzo 2007, p. 35 |