Cronache linguistiche
Scriviamo in inglese o scriviamo in italiano, ma corretti…


È incredibile quanto il tema degli anglicismi continui a suscitare interesse in Italia, e non solo. Molti si strappano le vesti perché usiamo troppi forestierismi (ma poi magari, proprio chi si lamenta di questo, nel "week-end" fa il "tour" degli "outlet", per poi finire la giornata con un "cocktail party"). Ma mai avrei creduto che un'intervista "leggera" del «Corriere della sera» in occasione del lancio promozionale di un corso di inglese, venisse riproposta, quasi integralmente, sul britannico "Times" («Un docente italiano ha lanciato l'allarme sull'infiltrazione delle parole inglesi nel suo linguaggio nazionale»), dando luogo, in quel giornale, anche a una piccola polemica.

E pensare che la mia posizione era, ed è, moderatamente liberista. Avevo cercato di sottolineare che la tendenza a includere anglicismi nella propria lingua è una tendenza che riguarda tutte le lingue europee, che è fisiologico per una lingua includere parole provenienti da altre lingue, che l'inglese, sempre più conosciuto, almeno superficialmente, in Italia, ha il vantaggio di essere una lingua molto più sintetica dell'italiano. Non c'è dubbio che ci siano parole che nascono come internazionalismi e che non ha senso tradurre (basti pensare a "mobbing", parola creata in inglese da uno studioso tedesco che opera nei paesi scandinavi); o altre che sono da così tanto tempo entrate in italiano che non ha più senso modificarle (si pensi al campo dei personal computer).

Ad essere discutibile è l'uso, tra lo snob e il provinciale, di forestierismi che vanno a sostituirsi a parole italiane già esistenti ("trend" invece di "tendenza", "flop" invece di "fiasco", "ticket" invece di "biglietto" e così via). Anche se ne capisco il valore unificante a livello internazionale, a me ha fatto sempre uno strano effetto lo slogan "United Colors of Benetton", nel quale l'internazionalismo della prima parte cozza contro il cognome prettamente veneto della ditta di Ponzano Veneto.

Ci sono alcuni casi molto emblematici in questo senso. Uno è quello di "governance", concetto politologico nato negli anni Ottanta e sempre più diffuso a partire dagli anni Novanta nei documenti dell'Unione Europea. In quasi tutte le lingue europee, e certamente in tutte le altre lingue romanze, è stato adattato al sistema della propria lingua (francese "gouvernance", spagnolo "gobernanza", portoghese "governança"). Solo l'italiano ha mantenuto, contro il suggerimento dell'Accademia della Crusca, l'inglese "governance" al posto del possibile "governanza" (i maligni dicono per decisione dell'entourage dell'allora Presidente Romano Prodi), con motivazioni in gran parte speciose che nascondono uno scarso sentimento di lealtà verso la lingua materna.

Un altro caso è quello del bando per il finanziamento di progetti di eccellenza della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che contiene un'impressionante serie di anglicismi ("overhead" per indicare le spese di funzionamento; "short list" a indicare la lista dei proponenti che, dopo una prima selezione, passano a un secondo vaglio più approfondito; "executive summary", per il progetto preliminare; "spese di start-up" per le spese di avvio). Con due cicche: per spiegare cos'è il referente scientifico, viene data la delucidazione "principal investigator", come se ormai, per capire l'italiano, servisse l'inglese. E poi, si chiede il "background e/o razionale della ricerca". Cos'è il razionale? Una piatta traduzione dall'inglese "rationale" che in questo contesto significa più o meno la logica che sottostà a un progetto di ricerca. Peccato che in italiano un sostantivo "razionale" e per di più in questo senso non esista!

Non ho nulla in contrario all'internazionalizzazione della ricerca e alla presa d'atto che la lingua di comunicazione internazionale è l'inglese: ma allora scriviamo i bandi in inglese (il più possibile corretto). Quando invece passiamo alla lingua nazionale, scriviamo in italiano, anche questo il più possibile corretto.

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 2 dicembre 2006, p. 31