Cronache linguistiche
L’euro, la lingua e i suoi problemi


Oggi mancano 87 giorni all’euro: un fatto che non so quanto tocchi psicologicamente gli Svizzeri, che non si troveranno a cambiare valuta; ma che certamente li toccherà dal punto di vista linguistico, dal momento che comunque di euro dovranno parlare, in tutte le lingue presenti nella Confederazione.

Il nome della moneta unica europea è stato, a mio parere, ben scelto. Optare per un nome inventato ex-novo è stata la soluzione migliore, che, tanto per cominciare, ha messo tutte le lingue sullo stesso piano di novità; in più, il nome prescelto funziona bene sia dal punto di vista semantico, dato che darà quotidianamente visibilità al concetto di Europa, sia dal punto di vista formale, perché è facilmente integrabile nelle lingue europee. Ma ciononostante, rimangono almeno due problemi linguistici: il primo è che, per quanto il nome sia uguale in tutta Europa, quasi ogni lingua lo pronuncia in modo diverso; il secondo che l’unicità della forma, garantita al singolare, si sfrangia al plurale, seguendo la morfologia delle diverse lingue (quindi: euro, euros, euri).

La Commissione europea ha disposto nel 1998 che euro è un nome comune maschile, invariabile e scritto con l'iniziale minuscola. Se non ricordo male, una soluzione condivisa, per l’italiano, dal Ministero (e, suppongo, dal Ministro) del Tesoro del tempo, Ma ora, sorprendentemente, le cose sono cambiate; in un decreto del Ministero dell’Economia italiano di fine settembre viene sistematicamente usato il plurale euri: 10.000 euri, 22.000 euri. Fino ad allora, l’uso di euri era poco attestato nella stampa italiana; l’ho trovato nel «Corriere della Sera» del 9 aprile 2001 («Ma costa ancora tanto ed è per questo che si sta lavorando al progetto di una vettura da 5000 euri, cioè 10 milioni di lire, più o meno») e in pochi altri luoghi.

Tanto euri, quanto euro possono vantare buoni argomenti a proprio favore: euri il fatto che i nomi delle valute, in italiano, variano al plurale (lire, dollari, marchi, franchi, fiorini, talleri), euro il fatto che quello della nuova valuta non è sentito come un nome vero e proprio, ma come un prefissoide estratto da europa (e quindi invariabile, un po’ come foto, auto, moto, che però sono femminili); o come una coniazione artificiale, una specie di forestierismo (e mango o bingo al plurale non fanno manghi e binghi).

Naturalmente, tutti i linguisti interpellati sulla questione osservano che sarà l’uso dei parlanti a decidere se si dirà euro o euri. Lo sostiene anche chi, come Massimo Luca Fanfani, in una dichiarazione all’Ansa, si spinge ad affermare che «bisognerebbe arrivare a dire “gli euri”, perché bisognerebbe attenersi all'uso che della parola fa la gente comune».

In realtà non credo che sia possibile dire, al momento attuale, qual è l’uso della gente comune. Nell’azzardare delle previsioni io terrei conto di un fatto fondamentale: nelle banconote, quelle che maneggeremo giorno dopo giorno, compare la scritta 10 euro, 20 euro e così via. Il precedente della probabile etimologia del veneto schei ‘soldi’, deformazione del tedesco Scheidemünze, scritto in una moneta austriaca con la parte iniziale SCHEI in un carattere ben rilevato, ci fa ben capire quanto sia importante, per la formazione delle denominazioni di valute, il nome che si trova su monete e banconote.

C’è però un però: quando avremo le tasche piene di spiccioli diremo «ho le tasche piene di euro» o «le tasche piene di euri»? Tra le possibili evoluzioni del nome della moneta unica europea c’è lo stabilizzarsi, con funzioni distinte, di entrambi i plurali euro e euri: il primo come nome della valuta, il secondo come nome delle monete. Insomma esattamente l’uso che ne ha fatto «Repubblica» in un articolo del 20 settembre, nel quale da una parte si dice che le banche possono anticipare «la conversione in euro del denaro custodito nei loro forzieri» (in riferimento alla lira si sarebbe detto conversione in lire), dall’altra che gli «euri sospetti» dovranno essere immediatamente ritirati dal mercato.

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 6 ottobre 2001