Cronache linguistiche
Storielle che fanno ridere e pensare


L'attribuzione all'esame di maturità di Alberto Tomba, come ho letto da qualche parte, è probabilmente una leggenda metropolitana, ma la storiella è divertente. Dunque, il professore di italiano, consultato l'elenco delle poesie imparate a memoria, chiede: “Mi dica l'Infinito di Leopardi”; piccolo momento di smarrimento dello studente che, ripresosi, risponde pronto: “leopardare”. Qualcosa del genere l'ho letta anche in tedesco: alla domanda “Cosa sa dirmi di Brecht?”, lo studente rimugina “Brecht, Brecht .... sì, seconda persona plurale dell'imperativo del verbo brechen”. Un po' diversa, ma sempre sulla stessa linea, è infine una storiella ambientata in una scuola del Veneto dialettofono: la classica maestra chiede all'altrettanto classico Pierino (ma forse è più adeguato chiamarlo Toni) di costruire una frase con avendo avuto. Panico di Toni, che ammutolisce, finché all'improvviso il volto gli si illumina e dalla bocca gli esce questa risposta: “Go na moto. A vendo. A vuto?”, cioè “Ho una moto. La vendo. La vuoi?”.

È un'attività che ha una lunga tradizione. Giambattista Marino, per esempio, ironizzava (nel Seicento, naturalmente) su quelli che oggi chiameremmo falsi amici tra italiano e francese: «Infino il parlar è pieno di stravaganze. L'oro si appella “argento”. Il far colazione si dice “digiunare”. Le città sono dette “ville”. I medici, “i medicini”. I vescovi, “vecchi”. Le puttane “garze”», e così via. E la tradizione popolare ci tramanda la storiellina del tedesco che, stanco e affamato, voleva pane e speck (“Mi folere brod und spech”), e si è visto portare un po' di brodo e uno specchio.

La sana abitudine di giocare con la lingua si è estesa ultimamente anche a livello colto, con la nascita della linguistica ludica. Ne è un esempio l'articolo, in qualche misura fondativo, di Gaetano Berruto e Bruno Moretti, uscito nei “Quaderni del Dipartimento di linguistica e letterature comparate” dell'Università di Bergamo nel 1994: un bell'esempio di come si possa giocare, spesso in maniera sapiente e raffinata, con la terminologia linguistica e con le sue possibili (demenziali, se ci è consentito) interpretazioni. Così la gorgia viene definita “filosofessa toscana di oscure origini (la sua ascendenza etrusca non è definitivamente provata), ma di grandi aspirazioni”, gli ideogrammi sarebbero l'“unità di misura del peso delle elaborazioni concettuali”, gnomico si riferirebbe a un “elemento dotato di funzione fàtica”, il triangolo semiotico, da una prospettiva leggermente osé, è una “coppia minima complicata dall'introduzione di un terzo elemento con rapporti plurimi e ambigui con ciascuno degli altri due” e così via.

Mi immagino che non tutti i giochi di parole che stanno dietro a queste fantasiose definizioni siano di immediata e generale comprensione. Trovo comunque notevole che ormai non siano più solo i parlanti a giocare e a divertirsi con le parole di uso comune; sono gli stessi linguisti a divertirsi con le proprie parole e le proprie definizioni. E questo, mi pare, è un bel segno della vitalità della disciplina, o almeno di alcuni suoi esponenti.

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 26 settembre 1998, p. 33