Cronache linguistiche
Storie d'apostrofi


Vorrei narrare due piccoli aneddoti.

Il primo è ambientato nell'aula di una università italiana, durante un esame di lingua italiana. Il professore scrive alla lavagna la frase «Rossi ha un'amante» e pone all'esaminando questa semplice domanda: «ipotizzando un rapporto eterosessuale, dia un nome di battesimo a Rossi». Stupore, se non proprio panico, dell'esaminando, che si guarda attorno per verificare se per caso non sia finito nella sede di un giornale scandalistico e, appurato che no, si trova ancora all'Università, si chiede se il professore sia improvvisamente impazzito, magari a causa di turbe sessuali. Poi prova a farfugliare una risposta: «Non so, Mario, Lucia, Deborah ...», senza accorgersi che alla lavagna c'è un segnetto piccolo, minimo, un apostrofo, che impone di scegliere un qualsiasi nome di battesimo (Mario, Dimitri, Oscar), purché maschile.

Il secondo ha come oggetto un libro importantissimo per un tema spesso discusso in questa rubrica, la comprensibilità dei testi burocratici. Si tratta del Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, redatto in Italia dal Dipartimento per la Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio (in sostanza un provvidenziale manuale dello scrivere chiaro per l'amministrazione pubblica). Ebbene, a pagina 34 un sottotitolo è scritto così: «Qual'è l'informazione principale del messaggio», con un indebito apostrofo tra qual ed è. Un erroretto, se vogliamo, che però stona in un codice di stile. Ma il Dipartimento della Funzione Pubblica è in buona compagnia: a p. 31 del volume della «Società di Linguistica Italiana» intitolato La linguistica italiana, oggi, un noto linguista pone una domanda: «mi piacerebbe sentire qual'era la posizione di Pisani».

L'apostrofo, insomma, pare proprio un problema dell'italiano scritto. Ma a ben guardare, i due casi sono diversi. Nell'esempio su cui è basato il primo aneddoto, l'apostrofo viene ad avere un valore distintivo: nello scritto io posso precisare, solo grazie a quel segnetto, se Gianni ha un'amante, e quindi è eterosessuale, oppure un amante, ed allora è omosessuale; oppure se mia figlia ha un'insegnante femmina o un insegnante maschio; oppure ancora se ho fracassato un'asse, cioè una tavola di legno, o un asse, cioè un componente di un autoveicolo. Nessun significato, se non lo scarso dominio delle attuali norme ortografiche dell'italiano, viene invece veicolato dall'uso dell'apostrofo nell'altro caso, quello di qual. Però, come mostra anche l'autorevolezza delle fonti da cui abbiamo tratto i due esempi erronei, la forma con l'apostrofo si sta diffondendo sempre più.

E qui mi pongo una domanda: vale la pena continuare a insistere nel cercare di opporsi a questo errore sempre più ricorrente? Vale la pena di spendere tanto tempo a correggere le produzioni di scolari, studenti, giornalisti ecc. ecc. in un contesto grafico nel quale una certa spinta analogica porta irrimediabilmente verso l'uso dell'apostrofo (come si scrive l'era atomica si è portati automaticamente a scrivere qual'era il comportamento)? Un discorso analogo vale, a mio parere, per il plurale di parole in -cia, -gia: si scrive province o provincie? frecce o freccie? acace o acacie? Quanto tempo si perde per cercare nel vocabolario una risposta a questo quesito, che non può essere risolto con una regola categorica, valida in ogni caso?

Allora faccio una proposta (rivolta non so bene a chi, all'Accademia della Crusca?). Perché non procediamo a una miniriforma della grafia dell'italiano che sancisca l'ammissibilità (premessa per l'obbligatorietà) dell'apostrofo dopo qual e la sistematicità dei plurali senza i per i nomi in -ce, -ge? La qualità dell'italiano non muterebbe assolutamente in nulla; si raggiungerebbe una omogeneità nelle scritture italiane; gli sforzi di insegnanti, correttori, critici potrebbero essere rivolti verso problemi ben più essenziali per la qualità dell'italiano.

Ma occorre che qualcuno sancisca la riforma. Altrimenti acace e qual'è restano indubitabilmente degli errori (e dobbiamo quindi bacchettare il Dipartimento della Funzione Pubblica, anche quando intraprende buone iniziative, e la Società di Linguistica Italiana, nonostante i suoi enormi meriti).

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 4 giugno 1994