Cronache linguistiche
La scuola? «A me mi piace»


C’è un terribile momento della verità per un linguista che si interessa all’italiano contemporaneo, alla sua evoluzione, alle tendenze di creazione di un nuovo standard, ed è il momento in cui il proprio figlio (o, parlando per fatto personale, la propria figlia) va a scuola. A questo punto le osservazioni teoriche e i suggerimenti, spesso imbottiti di sano relativismo, dati a studenti o a insegnanti in corsi di aggiornamento devono tradursi in atteggiamenti concreti rispetto al comportamento linguistico della figlia. E il proprio senso della lingua deve confrontarsi con il senso della lingua dell’insegnante: un confronto che può diventare tanto più problematico per la propria coscienza linguistica quanto più brava e stimabile è l’insegnante.

Capita allora di scoprire che la figlia, in seconda elementare, scrive: «A me mi piace andare a scuola perché si ride, si gioca, e si studia» e «Un giorno il cavallo si era perso nella foresta e incontrò tantissimi cavalli molto belli e gli chiese: - come avete fatto ad essere così belli?». La maestra che fa? Lascia stare, e lo fa ripetutamente (è quindi una scelta normativa o didattica precisa), l’a me mi piace e corregge gli chiese in chiese loro. Cioè esattamente il contrario di quello che, senza pensarci su troppo, avrebbe fatto il papà: non avrebbe toccato il gli chiese, considerandolo ormai largamente ammissibile anche nello scritto (lo usava anche Manzoni!), ma avrebbe semplificato il doppio pronome in a me piace o mi piace.

Per risolvere le perplessità che a questo punto diventano fortissime, il papà va a consultare le grammatiche. Il consiglio dell’autore della grammatica più attendibile per problemi come questi, Luca Serianni, è chiaro: entrambi i costrutti sono tipici dell’italiano informale o di quello parlato e «in un registro appena controllato» si evitano. Un parere, insomma, diverso sia da quello del papà sia da quello della maestra. Il giudizio del papà viene però sostanzialmente confermato da un altro illustre storico della lingua, Francesco Sabatini, per il quale gli dativo plurale «può considerarsi accettabile nell’uso medio, soprattutto parlato, ma anche scritto. S’incontra spesso nei giornali e nelle riviste; è quasi normale nella narrativa» (Serianni dice invece che «il parlato formale e la massima parte dello scritto (... in una certa misura anche giornalistico) preferiscono la forma loro»); mentre la sequenza a me mi è spiegabile in termini di struttura dell’informazione (a me mi piace non è semplicemente equiparabile a mi piace, ma vale più o meno «per quel che mi riguarda, mi piace ...») e «nella lingua colloquiale è diventata pressoché normale» (nessuna parola sullo scritto; se ne deduce, quindi, una minore accettabilità).

La soddisfazione per aver trovato una sostanziale concordanza con le proprie tesi scema quando si passa a consultare un saggio che riguarda espressamente uno dei due costrutti (titolo: «perché "a mì me gusta" sì e "a me mi piace" no?»), scritto, ahimè, dal nonno della bambina del cui comportamento linguistico stiamo discutendo, e cioè dal padre dello scrivente. Dico «ahimè» perché il saggio si conclude con queste inequivocabili parole: «la particolare situazione italiana di resistenza a questo diffusissimo uso a diversi livelli informali è dovuta alla repressione scolastica, che ha bloccato nella sua evoluzione una tendenza spontanea». Insomma, bambina, nonno, maestra, inconsapevolmente coalizzati, battono il papà e il suo senso della lingua.

A questo punto, sanamente, il linguista riprende il sopravvento sul padre; tornano alla mente le parole di Gaetano Berruto: «la scarsità di dati empirici e riscontri specifici su ampi corpora è una grave lacuna delle ricerche sulle varietà dell’italiano oggi». Discussioni come quelle avviate qui resteranno oziose, o si potranno basare solo sulle impressioni soggettive dei partecipanti al dibattito, finché non sapremo come, nei diversi tipi di testo, i parlanti usano realmente la lingua italiana.

Solo allora il comportamento degli insegnanti potrà basarsi su inequivocabili dati di fatto, e la coscienza linguistica dei genitori linguisti potrà trovare pace. Intanto, per fortuna, quella che sta vivendo tranquilla è la figlia, che non si rende conto dei problemi che il suo spontaneo e innocentissimo comportamento linguistico fa nascere negli adulti.

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 13 febbraio 1993, p. 33