Dal «Corriere della Sera» del 1° dicembre 1992 apprendiamo che un parlamentare veneto della Lega Nord, ispanista, professore universitario, sta predisponendo una proposta di legge per l'insegnamento del veneto nelle scuole della regione. C'era da aspettarselo. L'ho già scritto nel capitolo sulla legge relativa alle minoranze linguistiche: come è possibile negare per esempio ai Veneti ciò che si offre, sempre per esempio, ai Friulani? E' facile prevedere che la proposta di legge del professore deputato non andrà in porto; e bisogna comunque attendere che essa venga formalizzata in un testo per darne un giudizio circostanziato. Ma di fronte a proposte come questa non riesco a dimenticare il saggio parere che ho sentito esprimere ad Andrea Zanzotto: «Non condanniamo i dialetti al triste destino di diventare lingue»!
Ma non basta cavarsela con qualche battuta, sia pure acuta come questa. E' opportuno fare chiarezza su qualche punto di storia linguistica. Il Veneto, infatti, viene spesso portato come esempio di regione nel quale l'idioma locale (evito di parlare di lingua o dialetto) è tuttora vitale ed è stato per un certo periodo della sua storia lingua ufficiale di uno stato. In nessun'altra regione italiana non alloglotta parrebbe possibile giustificare meglio l'uso ufficiale o l'insegnamento della lingua locale. Ma le cose stanno proprio così?
Che il veneto sia, ancor oggi, vitalissimo, non c'è dubbio. Lo dicono le indagini demoscopiche e lo dice anche l'esperienza di chi, passeggiando per Venezia sente tantissimi colloqui in veneziano, qualche dialogo in lingua straniera e pochissimi discorsi in italiano (magari con coloriture non venete: quindi italiano di foresti). Ma se leggiamo bene le statistiche ci accorgiamo di un particolare che forse ci stupisce: è vero che il Veneto è in cima alla classifica della dialettofonia, ma c'è uno scarto altissimo fra chi sostiene di parlare in veneto in famiglia (il 74%) e chi sostiene di parlare veneto fuori di casa (il 41%): un 33% di persone che parlano veneto in casa, ma lo evitano fuori casa (in Sardegna lo scarto è solo dell'11%). Segno evidente che il veneto è sì usatissimo, è sì, ancora in buona misura, la lingua degli affetti; ma veneto e italiano si distribuiscono in maniera abbastanza netta nei diversi ambiti d'uso della lingua, certamente in maniera più netta di quello che avviene in altre regioni.
E nel passato cosa succedeva? E' vero che nel Settecento se qualche politico toscaneggiava nei consessi pubblici si copriva di ridicolo; è vero che nei tribunali, dove il procedimento avveniva in forma orale e senza l'appoggio di un testo scritto, le arringhe erano pronunciate in veneto. Ma è anche vero che nello scritto l'uso del veneto era possibile senza riserve solo nella scrittura letteraria (che però è la meno significativa per dare a un codice linguistico lo status di lingua); negli altri testi scritti in veneto, l'autore deve premurarsi di dare giustificazioni dell'uso di un codice diverso dall'italiano (ad esempio la volontà documentaria di trasporre in forma scritta interazioni orali così come si sono effettivamente realizzate).
Ne dobbiamo trarre tre conclusioni: la prima che l'uso del veneto sta subendo negli ultimi anni una riduzione qualitativamente molto maggiore di quello che i dati quantitativi nel loro complesso potrebbero far credere (per riduzione qualitativa intendo riduzione degli ambiti d'uso); la seconda che veneto e italiano non sono mai stati liberamente intercambiabili, ma che in ogni momento della storia linguistica della regione sono rintracciabili i criteri che regolavano il ricorso all'uno o all'altro codice (e la regola che vale oggi, imperniata sull'appartenenza dei parlanti a un gruppo omogeneo come quello familiare, non è la stessa di duecento anni fa, quando la regola si basava sull'opposizione tra il parlato, che implicava sempre il veneto, e lo scritto, che implicava sempre l'italiano); la terza che l'uso scritto del veneto ha sempre avuto il carattere dell'eccezione e mai della regola (con Meneghello dobbiamo sempre pensare al mondo dialettofono anche veneto come a «un mondo dove si parla una lingua che non si scrive»).
Ecco allora che si approfondisce il quadro delle motivazioni su cui basare il giudizio sull'inserimento a scuola (che è tuttora, e giustamente, luogo deputato alla scrittura) di un idioma locale, anche di un idioma come il veneto che pure conserva una gran vitalità. A parte ogni considerazione ideologica o di opportunità economica, l'introduzione del dialetto a scuola sarebbe un'operazione contro la storia linguistica.
Michele A. Cortelazzo
«Corriere del Ticino», sabato 12 dicembre 1992, p. 31 |