Ma è proprio vero che la storia delle lingue è sempre la stessa storia? Per quel che riguarda l'italiano tutto sembrerebbe chiaro: dalla disgregazione del latino si sono formati innumerevoli vernacoli volgari; alcuni di questi sono stati usati, naturalmente nei loro registri più alti e meno marcatamente locali, come lingua letteraria, tanto al Sud (a cominciare dalla scuola siciliana), come al Nord, come al Centro (Toscana). Ragioni di prestigio letterario e culturale, ma anche di preminenza economica (certo non ragioni di rilievo politico) hanno fatto sì che il volgare fiorentino fosse riconosciuto dai letterati d'Italia come prestigioso modello di riferimento. La sanzione ufficiale di questo prestigio, sviluppatosi tra i letterati in gran parte spontaneamente, avviene nel Cinquecento (se vogliamo fissare, per comodità, una data precisa, possiamo dire nel 1525, anno di pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo); ma, proprio perché il prestigio è letterario e non politico, il fiorentino a cui ci si riferisce non è quello contemporaneo, cinquecentesco, bensì quello dei migliori prodotti della cultura letteraria fiorentina, cioè quello del Trecento: è così che nel Rinascimento, periodo di codificazione un po' di tutte le lingue nazionali europee, in Italia si stabilisce quale indiscussa lingua nazionale scritta una varietà medievale di uno dei tanti volgari illustri della Penisola; ed è per questo che si può dire, senza sbagliare troppo, che fra le varie lingue europee l'italiano è quella la cui fase moderna meno si discosta dalla fase più antica. È solo con l'Unità Nazionale che l'italiano incomincia piano piano a diventare anche lingua parlata, ed erode piano piano spazi ai volgari diventati dialetti, per arrivare finalmente all'oggi, ad un periodo, cioè, in cui l'italiano è la lingua degli affetti per la maggior parte delle giovani generazioni (ed anche per molte di quelle meno giovani).
Questa storia, in queste sue grandi linee, è valida per tutta l'Italia; ma si è svolta con le stesse dinamiche, con gli stessi tempi, seguendo gli stessi percorsi in tutte le regioni italiane? Basta conoscere appena appena la storia politica e culturale di un territorio da secoli policentrico come quello italiano, per intuire che non può essere così. Ora l'intuizione è verificabile in un importante volume curato da Francesco Bruni, L'italiano nelle regioni, pubblicato pochi giorni fa dalla UTET: un libro che non si occupa, come potrebbe far credere una lettura disattenta del titolo, degli italiani regionali, ma proprio dei modi di diffusione dell'italiano nelle diverse regioni. Ed allora la storia della lingua italiana si moltiplica in una ventina di storie regionali dell'italiano: con molti tratti comuni, ma anche con molti elementi di differenziazione, dovuti, ad es., al differente valore della produzione letteraria nelle diverse regioni; alla ricezione non egualmente pronta dei prodotti letterari toscani; alle diverse politiche scolastiche (e, dove ci sono state, alle diverse politiche linguistiche); al ruolo, non sempre uguale, svolto dai dialetti; alla funzione di riferimento culturale svolto in alcune regioni da lingue straniere (non penso tanto al francese in Val d'Aosta o al tedesco nell'Alto Adige - Süd Tirol, zone per le quali è l'italiano, semmai, ad essere la lingua straniera di riferimento, quanto, ad es., al francese in Piemonte, al tedesco in Trentino o allo spagnolo in Sardegna). Il libro curato da Bruni è un libro di interessantissima lettura; e leggendolo si capisce benissimo che la storia delle lingue non è sempre la stessa storia, solo che si voglia collegare il mutamento linguistico all'evoluzione della cultura e, più in generale, al mutamento del tessuto sociale; in altre parole le storie delle lingue si differenziano quando il mutamento linguistico viene visto innanzi tutto come espressione del mutamento delle comunità che parlano una lingua.
Michele A. Cortelazzo
«Corriere del Ticino», sabato 20 giugno 1992, p. 35 |