Il discorso di fine anno
Quando parla il Presidente
Stile, tecniche, obiettivi, carisma e retorica nel messaggio agli italiani


A parte Segni, che ha prodotto solo 2 messaggi (troppo pochi per restituirci un'immagine precisa), ogni presidente ci trasmette attraverso i discorsi di fine anno una fisionomia specifica. Einaudi, nonostante la brevità dei suoi messaggi, ci dà segnali netti: il tipo di lingua usata rinvia a un mondo, reale e linguistico ormai lontano, nel quale si poteva parlare di borgo, casolare, focolare o di diletto, fallo, foriero, palpito, rigoglio, ordunque, vieppiù. Forte anche il carattere di testo d’occasione dei discorsi augurali, con espressioni come anno fecondo, lieti auspici, serena fiducia. Del tutto scialbo appare Gronchi, che si segnala per un sovradimensionamento dell'insieme di parole che orientano ottimisticamente al futuro come voti augurali, progresso tecnico, condizioni favorevoli, progresso economico: insomma i suoi discorsi sono quasi esclusivamente discorsi di circostanza.

Il primo che imprime una svolta ai discorsi di fine anno è Saragat, che per primo dà piena cittadinanza al lessico economico, sociale e politico, fino ad allora debolmente presente. Solo nei suoi discorsi compaiono espressioni come categorie dirigenti, ceti popolari, posti di lavoro, o aperture dei mercati, bilancia dei pagamenti, enti previdenziali, potere di acquisto, riserve valutarie, settori produttivi o risultano significativi lemmi che si riferiscono alle categorie lavorative come contadino, dirigente, insegnante, impiegato. Notevole anche la specificità di sintagmi come nostra cara patria, nostre libere istituzioni, perché per la prima volta si nota un significativo coinvolgimento dell’uditorio, tramite il possessivo nostro, su temi di carattere politico-istituzionale (e allo stesso risultato porta l’uso, esclusivo, della sequenza cari concittadini).

Leone si segnala per una decisa presenza del lessico economico, chiaramente dovuta all’emergere della crisi economica, alla quale si accompagna a una generale sottolineatura delle gravi difficoltà del momento. A bilanciare quest'aspetto cupo si pongono, però, le parole che cercano di dare ottimisticamente fiducia nel futuro. Insomma, Leone si accredita come il Presidente di buon cuore che, di fronte alle difficoltà del momento, cerca di rincuorare il Paese sull’avvenire. Pertini rappresenta un unicum nella storia dei discorsi presidenziali. I suoi discorsi, generalmente eseguiti a braccio, risultano prepotentemente polarizzati su settori peculiari, dotati di forte carica emotiva, tragicamente emotiva: i riferimenti alla delinquenza, al terrorismo, alla guerra e alla violenza; di conseguenza anche espressioni che si coagulano attorno al concetto di dolore o le espressioni di scoramento e pessimismo raggiungono presenze elevate. Ma sono notevoli anche i riferimenti alle diverse generazioni (in particolare i giovani, destinatari preferiti dei suoi discorsi). Cossiga si è trovato alle spalle la difficile eredità di un Presidente tematicamente e caratterialmente così particolare e ha reagito recuperando prepotentemente i settori della politica e delle istituzioni, aprendosi alla prospettiva internazionale (sono esclusive sequenze come comunità europee e ordine internazionale), risultando il Presidente che dà il maggior peso a quest'ultima dimensione.

Scalfaro ha dato ancora più spazio nei suoi discorsi alle istituzioni. È stato il solo a portare nelle case degli italiani, assieme agli auguri di fine anno, i nomi delle istituzioni della repubblica, come Camera, Senato (Camera l'aveva già usato Pertini), ma anche magistrato, ministro, crisi di governo, poteri dello stato, assemblea costituente, mentre è specifico capo dello stato. Forte è anche l’aspetto augurale, evidenziata dalla presenza di singole espressioni di fiducia ottimistica come voltare pagina, voltiamo pagina o addirittura “l’Italia risorgerà”, o dalla significatività di parole apparentemente ovvie come auguri o grazie. Scalfaro dà al momento rituale dei discorsi di fine anno la sua fisionomia più tipica, al tempo stesso istituzionale e augurale.

Infine, Ciampi. Le sue scelte si concentrano su tre temi: Europa, Italia, articolazioni interne all’Italia. In lui acquistano maggiore frequenza le parole che si riferiscono al campo internazionale (soprattutto europeo: Europa unita o Unione europea) e al tempo stesso a quello delle autonomie locali (sue esclusività sono i lemmi comunale e provinciale, sua specificità provincia e sindaco), mentre nel campo del patriottismo esclusivi suoi sono i lemmi inno, patriottismo, tricolore. Ancora, tipico di Ciampi è il campo della memoria e del senso storico: è solo suo un sintagma come mia generazione ed ha caratteristiche di specificità la parola storia. Un tratto notevole il tono tranquillo e familiare che Ciampi ha voluto dare ai suoi discorsi: lo si evince dall’incidenza dei termini legati ai rapporti familiari, ma soprattutto l’incidenza di parole che creano un tono direi affettuoso e di quelli che proclamano la concordia; mentre è bassa la frequenza di parole che rinviano al dolore, al pessimismo ma anche, di converso, alla fiducia nel futuro (se non si dipinge a tinte fosche il presente, c’è anche poco bisogno di marcare la fiducia nel futuro).

In sintesi: a fronte di una scarsa specificità di Gronchi e Segni, ma per certi versi anche di Leone (tipico soprattutto per il tributo pagato agli eventi del tempo) e Cossiga (che si caratterizza prevalentemente come reazione al Presidente precedente), spiccano per un verso l’apripista Einaudi, portavoce di un mondo che non c’è più e che non viene più rappresentato dai suoi successori; Saragat, che per primo apre vistosamente le porte al lessico politico, economico e sociale, ma soprattutto Pertini, Scalfaro, Ciampi. Pertini prima di tutto per la sua aperta colloquialità e per la forte, ma anche tragica, emotività; Ciampi perché ha saputo recuperare il senso della nazione inserendolo, però, in un quadro che va dal locale all’europeo; Scalfaro che, coniugando istituzionalità ad auguralità, ha cercato di interpretare il carattere intrinseco di un discorso di fine d’anno di un Presidente della Repubblica, anche, magari, nei suoi aspetti più noiosi.

Michele Cortelazzo e Arjuna Tuzzi

«Il Mattino di Padova», domenica 31 dicembre 2006, p. 50