Un saggio di Michele Cortelazzo sui cambiamenti della nostra lingua negli ultimi trent'anni
Italiano, bene l'orale e male lo scritto
«Caduti i modelli formali, mancano i punti di riferimento»

Bene l'orale, male lo scritto. Non stiamo parlando di uno studente disinvolto ma sgrammaticato, ma dell'italiano, inteso come lingua, come mezzo di comunicazione, come strumento di unità culturale della nazione. E' quello che emerge da Italiano d'oggi (pp. 225, £. 30.000) di Michele Cortelazzo, docente di grammatica all'Università di Padova. «Quando il presidente della Camera Violante - dice Cortelazzo - afferma che i giovani italiani tra i 18 e i 25 anni non scrivono, scopre l'acqua calda. E' evidente che il problema è lì, nell'italiano scritto. Dal punto di vista dell'oralità siamo diventati un paese normale. La nostra anomalia derivava dal fatto che l'italiano scritto esisteva, quello orale no. Negli ultimi trent'anni è avvenuta una trasformazione, per cui oggi possiamo dire che l'oralità ha una sua vitalità, mentre la lingua scritta soffre della mancanza di punti di riferimento, una volta perduti i tradizionali modelli di scrittura formalizzata».

Dunque, se si vuole dire che gli italiani non sanno scrivere forse si esagera, ma è certo che il problema esiste. «Se dovessimo trovare un elemento comune all'italiano scritto di questi anni - dice Cortelazzo - lo dovremmo cercare nell'espansione di un uso informale della lingua, che nasce anche dalla caduta di forme di scrittura, l'italiano scolastico ad esempio, che sono state dominanti per molti decenni. L'italiano scolastico era un italiano rigidamente formalizzato, che ha cominciato a perdere terreno negli anni settanta ed ora è sostanzialmente scomparso». E con esso stanno scomparendo anche le forme di scrittura scolastica tradizionali come il tema, che usava «una lingua gira su se stessa». «Alcuni luoghi comuni - dice Cortelazzo - non sono veri Non è vero per esempio il congiuntivo sta morendo e non è vero che oggi si scrive peggio di ieri Probabilmente le persone che scrivono bene anzi sono aumentate di numero: la sensazione contraria nasce dal fatto che un tempo tutti scrivevano bene, ma all'interno di un'élite. Ora che studiano tutti la situazione è diversa, ma l'obiettivo dovrebbe essere quello di un miglioramento globale».

Nei saggi raccolti in Italiano d'oggi Cortelazzo ripercorre l'evoluzione di alcuni settori della lingua, spesso determinanti per l'affermazione dell'italiano. «Anche per la tivù - dice lo studioso - la svolta è stata negli anni settanta. Prima la televisiva [sic] linguisticamente fungeva da maestra ed usava un italiano formale, quello dei telegiornali e dei presentatori Poi sono cominciate le interviste alle persone vere, e nelle case italiane è entrato l'italiano parlato: la televisione è diventata allora specchio del plurilinguismo, con i presentatori ancora attenti ad un linguaggio formale, ma la presenza forte anche di linguaggi spontanei e informali. Negli ultimissimi anche i presentatori parlano come gli intervistati».

In uno di suoi saggi Cortelazzo analizza anche l'italiano burocratico: «In origine c'è la legittima volontà di usare un tono alto, che qualifichi l'elemento istituzionale; il problema sorge quando questo sfocia in astruserie, come quella che ho trovato nella mia ricostruzione di carriera: "La S.V. non potrà invocare la buona fede in ordine alla eventuale irripetibilità di differenze tra corrisposto e dovuto, in dipendenza del presente provvedimento, che risultassero non dovute"». Ma qualcosa si può fare e Cortelazzo stesso lo ha sperimentato, guidando un'équipe che negli scorsi anni ha riscritto in modo adeguato alcune comunicazioni burocratiche del Comune di Padova. «Abbiamo un dato concreto e significativo - dice Cortelazzo - riguardo all'ICI. Dopo aver riscritto il manifesto sulle detrazioni, queste sono aumentate del 100%, segno che i cittadini hanno finalmente capito cosa potevano chiedere». Una buona lingua scritta, dunque, è anche questione di democrazia.

Nicolò Menniti-Ippolito

«Il Mattino di Padova», sabato 4 giugno 2000, p. 41