Cronache linguistiche
La resa collettiva di fronte al «piuttosto che» disgiuntivo


Qualche volta indosso la T-shirt prodotta un paio di anni fa dal cantautore Giacomo Lariccia con la scritta: «Arrendetevi! «Piuttosto che» non vuol dire «o»». Ora, temo che ad arrenderci dovremo essere noi, che abbiamo ripetuto la nostra contrarietà all’innovazione semantica, che ha aggiunto al significato tradizionale di «piuttosto che», ‘anziché’ («prendi un antipiretico, piuttosto che un analgesico: è più adatto al tuo malessere»), quello disgiuntivo ‘oppure’, ‘o meglio’ («prendi un polivitaminico piuttosto che un integratore: ottengono lo stesso effetto»): nel noi includo, per esempio, i professori Valeria Della Valle e Giuseppe Patota che nel 2013 hanno scritto un libro Piuttosto che. Le cose da non dire, gli errori da non fare, oppure lo scrittore Gianrico Carofiglio che, nel 2010, nel legal thriller Le perfezioni provvisorie, scrive: «Non c’è problema? Ma come parli, Guerrieri? Sei impazzito? Dopo non c’è problema ti rimangono tre passaggi: un attimino, quant’altro e piuttosto che nell’immonda accezione disgiuntiva. A quel punto sei maturo per andare all’inferno».

I portatori del nuovo valore di «piuttosto che» andranno anche all’inferno, ma hanno fatto proseliti su proseliti. Sono sempre più numerosi i parlanti italiani, di varia estrazione culturale e provenienza regionale, che usano con tranquillità il valore disgiuntivo di «piuttosto che». E lo fanno incuranti del tasso di ambiguità che viene aggiunto alla nostra lingua: in molti casi, soltanto una raffinata capacità di analisi del contesto, o buone conoscenze extratestuali ci permettono di interpretare correttamente frasi come «andrei in vacanza al mare piuttosto che in montagna»: l’interlocutore è un amante del mare, o un amante delle vacanze, e non importa se sono marine o montane? Siamo giunti al punto che ormai c’è chi si meraviglia, come davanti a un miracolo, quando sente usare la locuzione congiuntiva nel senso tradizionale di «anziché»: è quello che mi è accaduto di sentire recentemente in una commissione di laurea, con un collega giurista che si è complimentato con il laureando.

È prendendo atto della sempre più ampia diffusione del nuovo costrutto che credo che quanti non apprezzano l’innovazione dovrebbero ormai arrendersi all’evidenza: l’innovazione ha ottenuto il consenso di una buona fetta di parlanti, anche colti, e ha probabilmente superato il punto di non ritorno, che fa sì che un’innovazione entri a pieno titolo nel patrimonio di una lingua. Tanto più che, recentemente, un saggio di Gualberto Alvino, apparso negli «Studi Linguistici Italiani» ha smontato un altro baluardo dei resistenti: l’idea che si tratti di un’innovazione recente, che ha iniziato a diffondersi, pressoché esclusivamente nel parlato, a partire dagli inizi di questo secolo. Invece no. Alvino ha riscontrato che la locuzione «piuttosto che» è presente almeno cinque volte nella scrittura di Gadda con valore disgiuntivo (o probabilmente disgiuntivo). Riporto uno dei cinque esempi, proveniente dalle Novelle dal Ducato in fiamme, del 1953: «Quando si soffermava, lo sguardo un po’ triste, sul gilè piuttosto che sul viso del capitano, sembrava palesare un certo imbarazzo e insieme un certo disinteresse, una timida o malinconica perplessità». Altri esempi sono stati individuati in scritti di politici e filosofi tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Sì. È proprio giunto il momento della resa.

«Corriere del Ticino», giovedì 31 agosto 2017, p. 30