Cronache linguistiche
Oltre la comunicazione: i tanti idiomi dell’Europa unita


La Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale, l’associazione professionale nata per iniziativa dei traduttori italiani della Commissione europea, non poteva far passare sotto silenzio il sessantesimo anniversario della firma, a Roma, nel 1957, dei trattati che hanno istituito la Comunità europea dell’energia atomica e, soprattutto, la Comunità economica europea. E infatti il 19 giugno ha ricordato l’anniversario, tenendo una giornata di studio sul tema «l’Unione europea e i media italiani: dall’utopia realizzata alla disillusione?» proprio in quel Palazzo del Campidoglio, nel quale, sia pure in un’altra sala, i trattati erano stati firmati.

Le relazioni si sono occupate delle questioni linguistiche e comunicative dei trattati e dell’intera politica europea che ne è scaturita, da tre punti di vista: quello degli estensori degli accordi e dei successivi testi normativi; quello dei professionisti che dall’interno delle istituzioni europee hanno il compito di far conoscere proposte e risultati delle politiche unionali; quello dei giornalisti, che si fanno mediatori verso il grande pubblico di quelle proposte e di quei risultati.

Dal 1957 le condizioni comunicative sono certamente cambiate: la stampa e la televisione non sono più gli unici mezzi attraverso i quali i cittadini vengono a conoscenza di cosa fanno le istituzioni europee: ad essi si sono affiancati i social network, mezzo previlegiato per informare i giovani (ma non solo).

Ma anche il contesto in cui si muovono gli estensori delle norme e i primi mediatori delle regole, i traduttori, è cambiato in questi sessant’anni. Innanzi tutto, i traduttori sono sempre più essenziali: Klaus Meyer-Koeken, Direttore della Direzione Generale Traduzione della Commissione europea, ha ricordato che, se all’inizio si sarebbe anche potuto pensare a una coredazione delle norme nelle quattro lingue dell’allora Comunità europea, oggi, con 24 lingue, è possibile solo la traduzione nelle diverse lingue di un testo base: un testo base che oggi è prevalentemente in inglese, anche se spesso redatto da persone che non hanno l’inglese come madrelingua. Ma all’inizio non era così: Elena Ioratti, professoressa dell’Università di Trento, ha spiegato che per anni (fino al trattato di Maastricht del 1992) la lingua dominante dell’Europa unita era il francese: i negoziati si sono tenuti in tale lingua, la versione originaria dei trattati era in francese, e anche concettualmente i primi accordi si ispirano molto al diritto pubblico francese. Ma dagli anni Novanta questo ruolo è stato preso dall’inglese.

È una situazione che continuerà anche nei prossimi anni, dopo la Brexit? I pareri sono divisi: c’è chi prevede una ripresa d’importanza del francese, chi, invece, ritiene che l’inglese, ormai radicato tra ampie fasce di parlanti in tutti i Paesi dell’Unione, si rafforzerà proprio perché non metterà nessuno Stato e nessun cittadino in una situazione di previlegio linguistico. Una cosa è certa: riandando ai sessant’anni che sono trascorsi dalla firma dei Trattati di Roma, non si può essere trionfalisti, ma non si possono neppure negare le realizzazioni che si sono concretizzate da allora. Rimane attuale l’atteggiamento degli editorialisti del 1957, che univano nei loro commenti, come ha illustrato Raphael Gallus, della Direzione Generale Traduzione, parole di entusiasmo e di prudenza, di speranza ma anche di timore della disillusione.

«Corriere del Ticino», venerdì 30 giugno 2017, p. 23