Cronache linguistiche
Bipolarismo politico frantumato ancor prima nella lingua


La campagna elettorale che si è tenuta nelle settimane scorse in Italia (con i risultati sorprendenti che sono noti anche fuori d'Italia) ha dei risvolti interessanti anche dal punto di vista linguistico e comunicativo. Sotto questo aspetto, possiamo davvero dire che è nata la terza Repubblica.

Nella cosiddetta prima Repubblica si era giunti negli anni a una sostanziale uniformità degli stili discorsivi dei politici, tale da aver dato luogo a una denominazione («politichese») che comprendeva ogni tipo di linguaggio politico. In realtà, l'esperto era in grado di riconoscere le diverse provenienze ideologiche, e di conseguenza le diverse consuetudini linguistiche di base; ma tutte queste, quale più quale meno, risultavano avvolte da una pellicola fatta di eufemismi, reticenze, giri di parole che andavano, per l'appunto, sotto il nome di politichese. Sintetizzando, possiamo dire che il politichese nasceva da due motivazioni: da una parte la predilezione per una vaghezza di fondo, un dire e un non dire, che permetteva rapidi adeguamenti al mutare della situazione politica, dall'altra un distorto senso del decoro del linguaggio istituzionale, che vedeva nella complessità, lessicale e sintattica, la chiave per permettere ai politici di presentarsi come titolari di uno stile che doveva considerarsi prestigioso. All'inizio forse i due obiettivi sono stati raggiunti; ma col tempo è rimasto solo il primo, diventato, però, così evidente da ritorcersi come un boomerang sulla credibilità linguistica dei politici.

Con la cosiddetta seconda Repubblica la musica è molto cambiata, anche, e soprattutto, in connessione con la spettacolarizzazione e la personalizzazione della politica. Anche linguisticamente la politica è stata bipolare, con poche voci dissonanti: da una parte il ciclone comunicativo Berlusconi ha portato nella politica abitudini linguistiche che prima erano solo della propaganda aziendale (si pensi al fortunato, e mille volte parodiato, slogan «meno tasse per tutti» o all'immagine del «presidente operaio»), dall'altra il più tradizionale linguaggio della sinistra, che però si è dovuta spogliare dei peggiori tic del politichese, avvicinandosi il più possibile a una lingua italiana media comune. Una rivisitazione edulcorata del politichese era anche il linguaggio del centro (in gran parte ex democristiano), mentre prima la Lega e poi Di Pietro hanno portato nella politica accenti ruspanti e fortemente popolari.

Nell'ultima campagna elettorale la dispersione degli stili, aiutata dal ricorso ai più diversi canali comunicativi (con evidenti preferenze da partito a partito), ha rotto, ancor prima del bipolarismo politico, il bipolarismo comunicativo. Ne ha dato conto l'Enciclopedia Treccani, che ha dedicato alla campagna elettorale tre dei dossier che pubblica periodicamente (http://www.treccani.it/magazine/lingua_ italiana/speciali/). Ne emerge una policentricità delle scelte linguistiche dei protagonisti della campagna elettorale, vincenti e perdenti, che va dal tradizionale politichese di Gianfranco Fini all'estremizzazione di alcune tecniche della politica mediatizzata e spettacolarizzata (ad es. con il turpiloquio, il ricorso ai nomignoli ingiuriosi, il prevalere del «tu») di Beppe Grillo. Una tecnica comunicativa, quest'ultima, che è risultata vincente, come lo era stata prima per Berlusconi, con la sua spettacolarizzazione, e con Bossi, con la sua aggressività

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», lunedì 18 marzo 2013, p. 32