Cronache linguistiche
Gli imprevedibili oltraggi accademici


Ha suscitato un giustificato scalpore uno studio sulla qualità dell’italiano usato da alcuni professori universitari nei loro saggi. Lo studio, di Dora Di Maio, pubblicato nella rivista «Lingua italiana d’oggi (LId’O), edita da Bulzoni, documenta gli indubitabili errori di italiano rintracciabili negli scritti di alcuni docenti di materie umanistiche dell’Università di Salerno. Tanto per fare qualche esempio: «ricordandogli tutti i suoi sacrifici che egli ha affrontato» (con la ridondanza suoi/egli), «l’ordine di successione degli stadi è così mantenuta da un principio generale d’equilibrio» (con «mantenuta» che non si accorda con «ordine»), «questo dramma [del 1894] è ambientato in epoca attuale» (si voleva dire in epoca contemporanea a quella della composizione), «un salto generazionale che chiude per davvero l’Ottocento e si mette dentro al Novecento» (con una scelta lessicale molto imprecisa e informale) e via dicendo.

Devo dire che non tutti gli altri errori citati dall’autrice sono indiscutibili; talvolta tradiscono una concezione molto rigida e meccanica della lingua, soprattutto quando si tratta di concordanze a senso o di errori che nascono da banali, anche se incresciosi, refusi. Più in generale lo studio soffre di un limite molto diffuso nelle ricerche di ambito umanistico, e cioè la mancanza di indicazioni sull’ampiezza del corpus utilizzato e quindi sulla significatività dei risultati ottenuti (una cosa è se gli esempi riportati rappresentano l’esemplificazione di una situazione diffusa, un’altra è se sono le «perle» riscontrate compulsando decine e decine di testi, scovando quei punti nei quali uno studioso ha abbassato la guardia, dormicchiando come, si dice, facesse talvolta anche Omero). Ma resta lo stupore che, comunque, i momenti di rilassatezza nella scrittura dei docenti universitari siano così diffusi.

Lo stupore è aumentato da due fatti: il primo che la Facoltà di Lettere dell’Università di Salerno si situa nelle classifiche delle facoltà italiane sopra la media (non parrebbe, quindi, il rifugio degli incompetenti e degli incapaci); il secondo che la maggior parte dei professori autori delle sgrammaticature citate si occupano di temi di letteratura italiana, oltre che di pedagogia e di psicologia. Per quanto, giustamente, l’autrice non abbia pubblicato i loro nomi, possiamo dedurre che i professori sgrammaticati siano studiosi di pedagogia, forse psicologia, ma soprattutto di letteratura italiana.

E allora lo stupore aumenta. Una certa disattenzione alla correttezza linguistica si può anche perdonare in studiosi di materie scientifiche o tecnologiche (anche perché abituati a diffondere i risultati delle loro ricerche di punta non in italiano, bensì in inglese), ma negli studiosi di letteratura italiana proprio no, visto che loro oggetto di studio sono gli scrittori, cioè quella categoria di persone che, prima di ogni altra è chiamata a salvaguardare un patrimonio (quello della buona lingua) che si confonde con la civiltà di un Paese.

A definire così l’attività degli scrittori è stato Mario Andrea Rigoni, professore di Letteratura italiana all’Università di Padova e editorialista del «Corriere della sera», che ha brevemente commentato la notizia dei professori sgrammaticati il 29 luglio scorso. Ma leggendo quel trafiletto, il mio stupore è ulteriormente aumentato. Rigoni afferma che «l’oltraggio alla proprietà e alla bellezza dell’italiano viene spesso recato proprio dai «competenti», dai linguisti». Ma tra i brani riportati dalla Di Maio non ce n’è nessuno di argomento linguistico: dei linguisti si potrà dire di tutto, a cominciare dal fatto che sarebbero sordi al valore estetico della parola (certo: non è questo l’oggetto dei loro studi), ma, almeno dalla ricerca di cui stiamo parlando, non si può proprio dire che siano sordi alle regole che sovrintendono al funzionamento della nostra lingua.

L’episodio ci dà un suggerimento: quello di allargare ed affinare, con gli strumenti rigorosi dell’analisi linguistica dei corpora, lo studio dell’italiano degli accademici. Almeno di quelli che scrivono ancora in italiano. Chissà cosa scopriremo!

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», mercoledì 1 ottobre 2008, p. 29