Cronache linguistiche
Quando si «traduce» Leopardi in lingua moderna


Alla vigilia di Natale Pier Vincenzo Mengaldo ha fatto scoppiare una di quelle piccole o grandi tempeste che spesso caratterizzano il panorama culturale italiano. Nel "Corriere della Sera" del 22 dicembre, ha discusso l'edizione delle Canzoni di Leopardi curata da Marco Santagata per gli Oscar Mondadori, con l'aggiunta di una "versione in prosa", posta a fronte del testo originario. Sono evidenti i rischi cui un'edizione del genere può portare: quello che si legga solo la versione in italiano moderno, perdendo la nozione fondamentale che un prodotto letterario non è dato solo da un contenuto, da un messaggio, ma anche da una forma, quella forma che l'autore ha dato, una volta per tutte, alla sua poesia.

Se non ho visto male, nella discussione, che ha coinvolto almeno il "Corriere della Sera", l'"Osservatore romano", il "Sole 24 ore", il "Manifesto" (scadendo, a un certo punto, nell'attacco personale), solo Lorenzo Renzi si è schierato a favore di Santagata (il quale, da parte sua, è intenzionato a condurre un'operazione analoga sulla "Divina Commedia"). L'idea di una traduzione dei testi letterari italiani ha, comunque, uno sponsor morale d'eccezione, don Lorenzo Milani. Il priore di Barbiana, in una lettera, peraltro mai spedita, si era immaginato non di affiancare una traduzione ai Promessi sposi, ma addirittura di sostituire nel testo le parole arcaiche, e soprattutto le parole di significato oggi desueto, con parole più comuni. È questo uno dei pochi punti in cui non mi sento di condividere le idee di don Milani. Resto perplesso anche quando sento che esistono edizioni del Principe in italiano moderno, senza originale a fronte (ma il Principe non è un'opera di poesia, e neanche un'opera letteraria in senso stretto; e sono sensibile all'osservazione di chi si chiede perché uno studioso di scienza della politica francese o inglese possa leggersi questo trattato in una varietà moderna della sua lingua, e un italiano no).

Ma nel caso delle Canzoni di Leopardi le cose sono un po' diverse. Dietro alla decisione di fornire il testo della sua traduzione ci sono due presupposti, a mio parere egualmente discutibili: il primo che l'italiano poetico di Leopardi sia una lingua sostanzialmente diversa dall'italiano di oggi; la seconda che l'allontanamento di gran parte del pubblico (soprattutto scolastico) dai classici sia dovuto alle difficoltà di lingua.

Sul primo punto: è vero che, sia dal punto di vista sintattico che da quello lessicale, si nota un notevole distacco tra l'italiano di Leopardi e l'italiano d'oggi; ma è un distacco così forte da rendere necessaria una parafrasi integrale? Sul secondo punto: non è che l'allontanamento dei giovani dai classici, ma in genere dalla poesia, sia dovuto al fatto che tuttora la scuola educa poco alla lettura diretta dei testi e che gli insegnanti si impegnano con poco entusiasmo in questa attività? (Ma quando invece succede il contrario i risultati si vedono: è il caso di quei ragazzini di scuola media in gran parte dialettofoni del Bellunese che, sulla spinta del loro insegnante, hanno imparato a memoria, capendoli, centinaia di versi dell'Orlando furioso e hanno preso a recitarli alle più disparate ore del giorno a parenti e amici, come novelli cantastorie). Nell'attuale situazione della scuola italiana temo che un'operazione come quella di Santagata finisca non per ridurre, ma per allargare il campo dei non lettori, e soprattutto quello degli insegnanti che non fanno leggere i testi, mirando solamente al "messaggio".

Ma in realtà c'è una differenza radicale tra la versione in prosa di Santagata e le vecchie edizioni annotate? Sono andato a cercarmi la mia vecchia antologia del liceo (copyright: 1966) e ho esaminato il commento, in note a pie' di pagina, alla canzone Alla Primavera o delle favole antiche. Ho scoperto che su 95 versi ben 81 erano completamente parafrasati o, per essere più espliciti, tradotti. Insomma la differenza rispetto a Santagata si riduce al fatto che per 14 versi la mia antologia dava solo qualche chiosa lessicale. Ma per il resto traduceva. In nota, però. Di diverso c'è, quindi, solo la modalità di presentazione. Certo, anche nel caso del commento, la forma è fondamentale: le traduzioni a pie' di pagina, e anche solo parzialmente incomplete, rimandano obbligatoriamente il lettore al testo; la versione integrale no. Ciononostante, il mio compagno pigro o demotivato si limitava a leggere le note, come può fare lo studente pigro o demotivato di oggi con la versione di Santagata; lo studente più responsabile o più curioso risaliva al testo, come accadrà anche oggi al lettore colto o curioso.

Mi chiedo: se Santagata, invece di porre la sua versione a fronte, l'avesse collocata in nota, strofa per strofa, avrebbe suscitato lo stesso vespaio?

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 27 febbraio 1999