Cronache linguistiche
L'esperienza del latino


Se c'è una lingua con la quale gli italofoni hanno un rapporto conflittuale e complesso, questa è il latino. Le cose, in realtà, parrebbero semplici: si tratta di una lingua che si può tranquillamente definire morta, che oggi non è più parlata se non in contesti artificiali, che ha perso negli ultimi decenni anche quegli spazi che, ad esempio nella Chiesa, aveva mantenuto per secoli. Quindi nella scuola, che è il banco di prova delle scelte ideologiche in fatto di lingua, l'insegnamento del latino dovrebbe essere considerato specialistico e riservato solo a chi intende dedicarsi agli studi umanistici. Sono in molti a pensarla così.

Ma c'è anche chi la pensa diversamente: c'è chi ritiene che il latino rappresenta le radici della nostra lingua, e la cultura trasmessa dal latino le radici della nostra cultura; che il latino, ben al di là del periodo in cui è stato usato come lingua nativa, è stato usato a lungo come lingua colta e ha quindi permeato in profondità la cultura italiana; che anche a livello popolare è stato una lingua con cui ogni parlante, per quanto dialettofono, per quanto analfabeta, ha avuto una lunga consuetudine (attraverso la liturgia). Quindi una qualche conoscenza del latino e della sua cultura dovrebbe far parte di quel sapere di base che deve essere acquisito da ogni cittadino.

È difficile prendere partito, con calma e ragionevolezza, fra queste due posizioni, ognuna delle quali ha dalla sua argomenti condivisibili. È un fatto che da un trentennio il latino non è più un insegnamento obbligatorio (e da più di un decennio neppure facoltativo) nella scuola media italiana; ma è anche un fatto che discussioni, polemiche, sensi di colpa emergono periodicamente nelle pagine dei giornali. Senso di colpa: ecco, questa pare la chiave giusta per capire l'atteggiamento di molti a proposito del latino. È un atteggiamento analogo a quello di chi si vede costretto a collocare un parente anziano in una casa di riposo: si rende conto che, nell'organizzazione sociale odierna, non gli è possibile fare altrimenti; ma mandare un parente in un ospizio lascia sempre l'amaro in bocca.

Ecco allora che il latino è stato escluso dalla scuola media, ma nel programma di italiano è stata inserita la considerazione dell'origine latina della nostra lingua: si è affidato così alla scuola il compito, difficilissimo, di far scoprire agli adolescenti, magari in maniera induttiva, come la loro lingua materna derivi da una lingua di cui non sanno nulla! Non è un modo, magari un po' maldestro, per liberarsi dal rimorso di aver mandato il latino in casa di riposo?

Recentemente alcuni deputati hanno proposto addirittura di «realizzare forme di sperimentazione per l'insegnamento della lingua latina, a cominciare dalle scuole elementari, secondo metodi moderni, ivi compreso il latino parlato». Che pensare? Quanto meno che si esagera. L'intera iniziativa mi pare un chiaro esempio delle estremizzazioni cui possono portare i complessi di colpa. Ha poco senso proporre l'insegnamento del latino parlato, cioè un qualcosa che, se non è proprio contro natura, è certamente contro la storia (oggi non esiste alcuna comunità parlante che abbia il latino nel suo repertorio!). Oppure immaginare di insegnare il latino agli scolari delle elementari, già oberati dai più diversi insegnamenti, mi pare che riveli mancanza di realismo e di amore per i bambini.

Si cominci, piuttosto, a realizzare concretamente quello che gli ordinamenti già prescrivono, e cioè ad indirizzare gli studenti italofoni a scoprire che la base della loro lingua è un'altra lingua, morta ma nota, usata in Italia (ma non solo in Italia) una ventina di secoli or sono. Maurizio Bettini notava giustamente, qualche tempo fa su «Repubblica», che lo studio del latino è stato per molti anni un laboratorio di riflessione teorica sulla lingua e il linguaggio e che le generazioni passate hanno studiato linguistica a scuola proprio attraverso il latino. Ora che siamo capaci di fare linguistica anche attraverso le lingue moderne, lo studio dei rapporti di filiazione dell'italiano dal latino può diventare un ottimo laboratorio di riflessione sulla natura storica delle lingue. Ed allora il latino - per tornare all'immagine già usata - avrà lo stesso ruolo che un buon nonno può avere nell'educazione di un nipote: quello di trasmettergli gli insegnamenti della sua esperienza. L'esperienza del latino è quella della relatività e provvisorietà di ogni lingua, che muta sempre, tanto o poco, e può anche evolversi così radicalmente da diventare una lingua fondamentalmente diversa da quella che era all'inizio.

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 17 ottobre 1992, p. 33