Cronache linguistiche
Don Milani, un esempio che rimane attuale


A cavallo tra giugno e luglio si è consumata nei giornali una delle tante polemiche culturali dell'estate, in tutto simili, per il loro sorgere improvviso e l'altrettanto improvviso chetarsi, ai temporali estivi. Questa volta è toccato alla figura di don Lorenzo Milani, messa in discussione da un articolo di Sebastiano Vassalli apparso su «Repubblica» del 30 giugno, col titolo, che è tutto un programma, «Don Milani, che mascalzone». Vassalli sottolinea punti deboli, certamente demagogici o insensati, della pedagogia di don Milani (ad es. la proposta di abolire la matematica dalle magistrali perché per insegnare questa materia ai bambini sarebbero sufficienti le nozioni apprese alle elementari; l'idea di poter ridurre la pedagogia ad una paginetta; l'uso del giornale finalizzato a puri scopi di indottrinamento; la teorizzazione dell'utilità didattica delle punizioni corporali ecc.), o individua nel libro più famoso non di don Milani, bensì della sua scuola, Lettera a una professoressa, una delle cause del degrado che la scuola italiana avrebbe subito dopo il '68 e giunge così a quella demolizione della figura educativa di don Milani che era preannunciata dal titolo. E, nel chiudere la polemica (il successivo 4 luglio sullo stesso giornale) Vassalli afferma che i sostenitori di quel libro, se solo lo leggessero o lo rileggessero, si accorgerebbero che i suoi contenuti non sono più difendibili di quanto lo siano, oggi, le economie pianificate dei Paesi dell'Est o la rivoluzione culturale cinese.

A me pare, invece, che quel libro, che ho letto e riletto più volte in questi anni, sia ancora difendibile, e proprio per ragioni che riguardano questa rubrica.

Ad un recente convegno ho sostenuto, argomentandolo con ampiezza maggiore di quella che mi posso concedere qui, che Lettera a una professoressa possa essere letto ancora oggi come un manuale di scrittura e come un esempio di scrittura. Don Milani è riuscito a far scrivere ai suoi allievi un libro di rara efficacia, e questo mentre nelle scuole 'regolari' d'Italia gli scolari perdevano il loro tempo, e inaridivano la loro eventuale capacità di scrittura, in temi dai titoli surreali come «Parlano le carrozze ferroviarie». Ebbene, aver fatto raggiungere questo risultato a dei giovani contadini e montanari mi pare un merito non da poco. Vassalli, in realtà, non crede che Lettera a una professoressa sia stata scritta dagli allievi, bensì da don Milani stesso: ma non c'è da dargli retta, fino a quando non ci spiegherà perché allora nell'epistolario di don Milani ci sono numerose narrazioni del difficile processo di stesura collettiva di quella lettera (tutte invenzioni?).

Ed è invece proprio l'esposizione delle modalità del processo di scrittura, contenuta anche nella Lettera a una professoressa, l'aspetto tuttora vitale del libro: io credo che tutti gli insegnanti e tutti coloro che scrivono per professione, qualunque essa sia, dovrebbero ricordare sempre quel che Lettera a una professoressa dice a proposito dello scrivere: che è un'arte, benché fatta d'una tecnica piccina; che come ogni tecnica è insegnabile e che per insegnarla non sono necessari strumenti sofisticati, ma la costante attenzione a certe piccole, banali operazioni (trovare le idee, cercare un filo logico con cui ordinarle, articolare il testo in capitoli e paragrafi, dare un titolo ai paragrafi, per provare che si tratti effettivamente di sotto-unità complete ed autonome ecc.): tutte cose che, magari con altre parole, più difficili, oggi dicono pedagogisti e insegnanti impegnati a far uscire dalla scuola non dei giovani ideologizzati o infatuati, ma dei giovani che sappiano fare alcune cose, e fra queste scrivere.

Don Milani ha insegnato, insomma, ai suoi allievi, e i suoi allievi ricordano a noi, quella tecnica piccina che dovrebbe essere coltivata con solerzia e umiltà da tutti gli scriventi - compresi (riprendo temi e geremiadi ormai note ai lettori di questa rubrica) i burocrati ministeriali, che anche in questi giorni hanno fornito illustri esempi di incapacità scrittorie (segnalo solo i nuovi esami teorici per la patente che hanno portato alla bocciatura di un gran numero di candidati, ma non si capisce se per ingiustificata ignoranza delle norme stradali o per giustificatissima incapacità di comprendere il ministerialese). Vassalli si stupisce che, negli anni Novanta, ci siano ancora così tante persone che fanno di don Milani un mito; chissà se anch'io, scrivendo queste poche righe, ho dimostrato di vivere di un mito. Se anche così fosse, però, non mi spiacerebbe; in questi anni di crisi, ancora peggiori dei «banali anni Ottanta» (per usare proprio una definizione di Vassalli), essere in grado di accendersi per un mito mi pare una bella cosa.

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 19 settembre 1992, p. 37