Cronache linguistiche
Dominare la parola scritta


Nell'attuale indubbio interesse degli italofoni per la loro lingua, ampiamente documentato dai mass media e dal mercato editoriale, e nelle relative discussioni, si procede troppo spesso per luoghi comuni. Si dice, ad esempio, che l'italiano è infarcito di forestierismi (e questo parrebbe vero, a giudicare dal gran numero di parole straniere comprese nei nostri più recenti vocabolari); si dice anche che l'italiano sta soccombendo di fronte a tale valanga: poi però si scopre (ce l'ha detto De Mauro al recente congresso della Società di Linguistica Italiana di Lugano) che nella concreta realtà parlata occorre ascoltare mediamente un milione di parole per imbattersi in un solo forestierismo. Si dice, anche, che i giovani sono succubi della televisione, di manie tecnologiche come il computer e i video-giochi e che tutto questo influenza la loro lingua; ma poi, se si va ad esaminare il lessico giovanile, si scopre che l'influsso di lingue speciali e di linguaggi settoriali è minimo (mentre imperano ancora i mezzi di deformazione lessicale tradizionalmente caratteristici dei gerghi). Si dice anche che ormai l'uso del linguaggio verbale è messo in crisi dall'evoluzione tecnologica, che ha sviluppato i mezzi di comunicazione audiovisiva a distanza (televisione, telefono); ma nessuno pensa per esempio al boom del fax, innovazione tecnologica che ridà peso e valore alla parola scritta.

Non so se fra i luoghi comuni ci sia anche quello che le classi più istruite sanno usare bene la lingua scritta. Che lo si dica o meno, è certo che la realtà non è questa. Da una recente indagine effettuata in alcune università italiane sulla lingua degli studenti, per lo più di facoltà umanistiche (pubblicata nel volume La lingua degli studenti universitari, a cura di Cristina Lavinio e Alberto Sobrero, Firenze, La Nuova Italia) emerge un quadro forse inaspettato: gli studenti universitari usano normalmente il parlato dell'uso colto (che non è, si badi bene, una lingua identica a quella scritta, una realizzazione del "parlare come un libro stampato"), ma poi, quando scrivono, non sono in grado di rispettare le più elementari regole della scrittura: non solo quelle relative ad una chiara e funzionale strutturazione del testo, o alla sua adeguatezza rispetto agli interlocutori o alle altre componenti della situazione comunicativa, ma anche le più basilari regole ortografiche (possiamo così leggere: evoluzzione, inquiesta, abinati ecc.), di adeguatezza lessicale, di coerenza semantica.

Il dato non deve servire ad alimentare nuovi luoghi comuni (ad es. sui laureati o sui professori di lettere asini), ma deve farci riflettere sulle cause del fenomeno (inadeguatezza dell'attuale educazione linguistica, o sua cattiva realizzazione? Disinteresse per l'uso della lingua nella scuola superiore? Mancanza quasi assoluta di prove scritte, prima della tesi, nel curriculum universitario?) e sui mezzi per rimediarvi. Deve far anche riflettere sul fatto che, se questa è la situazione delle facoltà umanistiche (nelle quali qualche forma, magari indiretta, di educazione alla scrittura viene effettuata), quale sarà lo stato degli studenti di altre facoltà? Eppure tutti sappiamo, dai contatti che ci capita di avere con professionisti, quanto sia essenziale anche per medici, avvocati, ingegneri, commercialisti, architetti, saper scrivere qualcosa di più complesso della propria parcella o di una ricetta standardizzata. Una scuola e una università che formano potenziali professionisti incapaci di dominare in maniera congrua la parola scritta dimostrano, anche solo con questo, di non essere in grado di fornire agli studenti una piena e adeguata preparazione per la futura professione.

Cado, con questa conclusione, in un luogo comune? Non mi pare. Ma lascio ai lettori il giudizio finale.

Michele A. Cortelazzo

«Corriere del Ticino», sabato 12 ottobre 1991, p. 41